Per lo struggente amore del luogo natio Giovanni Battista Valentini, uno dei più valenti e poliedrici letterati vissuti tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo, intese chiamarsi e farsi chiamare «Cantalicio».
L’antico comune di Cantalice quando nacque il Valentini, nel 1450, annoverava già una lunga serie di lotte con i paesi circostanti e soprattutto con Rieti che aveva compiuto, vari tentativi di annetterne il territorio, la popolazione e le istituzioni. Particolarmente aspre e tenaci furono le contese, avvenute dal 1495, tra i cantaliciani e la coalizione dei reatini, dei francesi, dei pontifici e di alcuni castelli circostanti come Poggio Bustone e Rivodutri, che riunì un esercito di oltre diecimila soldati, senza riuscire a scardinare la difesa ed a vincere la resistenza dei cantaliciani. Fu in tale circostanza che alla porta della città, invano assalita, fu dato il nome omerico di «Scea». Tali annose discordie contribuirono a rendere alquanto instabile e occasionale la permanenza in Rieti del Valentini che, fin da giovanissimo, si era segnalato sia nella Curia Romana sia nell’arnbiente universitario, dove fu accolto con ammirazione ed entusiasmo dal suoi maestri. Molto apprezzato come insegnante e come precettore presso le nobili famiglie romane, ebbe l’incarico, dallo stesso dotto pontefice Pio II, di attendere all’istruzione dl un figlio dl una sua cugina.
Simile incarico gli conferì il papa Alessandro VI per il nipote Pier Ludovico, definito «fiaccola e onore del casato borgiano». Grande ammirazione il Cantalicio ebbe per i figli di Papa Borgia, Cesare e Lucrezia, della quale registrò, con intento altamente adulatorio, il matrimonio con il duca di Ferrara.
La sua fama di maestro e poeta si diffuse ampiamente anche al di fuori di Roma. Nell’attività didattica, iniziata a Siena nel 1471, si rifaceva al mondo romano, accostandosi frequentemente all’esperienza religiosa del Cristianesimo e proponendosi come fine dell’educazione la formazione integrale del carattere e della personalità individuale.
L’armonia del corpo e dello spirito da conseguire, nel corpo in quanto naturalità e nell’anima, in ossequio alla spiritualità ed il gusto delle humanae litterae , rappresentava, per lui, l’ideale pedagogico e didattico della scuola e della dottrina educativa della sua età. Riteneva importante “conoscere per poter agire e sapere per poter fare”. Il comune di S. Gimignano, dove si recò ad insegnare con suo fratello Angelo, gli tributò, l’anno seguente, un solenne elogio con tale espressione: « Clarissimum Virum Maglstrum Cantalicium Grammatice Professorum ».
Tra la sua vasta e ragguardevole operosità letteraria sono stati molto apprezzati gli studi grammaticali al punto da essere ritenuti veri e propri testi scolastici per tutto il Seicento. Partendo dalle arti liberali dell’antica Roma poi attraverso il Medioevo e gli scrittori del Trecento, ne descriveva gli elementi costitutivi, l’uso e l’articolazione in fonetica, la morfologia con le varie forme che ogni popolo assumeva nel discorso ed infine i nessi sintattici del periodare. Assai utile all’uso degli studenti fu anche il « Glossario latino-reatino ». Nella mente e nel cuore degli scolari seminava i germi vitali del sapere, nella consapevolezza che non si passa dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della scienza se non si opera un costante sforzo di interpretare e comprendere i testi antichi e penetrare più addentro i problemi dell’uomo affinché sia in grado di intendere le ragioni dell’universo creato da Dio, di amarne la bellezza e di ammirarne l’immensità. Alla pari del Cantalicio, opponendosi al rigoroso ascetismo del Medioevo, aderirono alla nuova cultura molti religiosi come il Manetti, il Marsili, il Traversari e gli stessi papi Niccolò V Leone X, e Pio II
La sua cultura e la sua disponibilità ed affabilità, lo resero bene accetto alle più celebri casate d’Italia, dagli Aragonesi, tenaci alleati di Cantalice, ai Montefeltro, dai Savelli agli Orsini, dai Gonzaga al Borghese, dai Varano al Piccolomini, dai Borgia ai Medici. Al Magnifico Lorenzo che ammirava per la sua abilità diplomatica e politica ma ancor più per la sua fervida vena poetica, dedicò il poemetto: « Volaterrana », che descrive un evento storico del quale fu testimone, il Sacco di Volterra, messa a ferro e fuoco in seguito ad una violenta ribellione.
Da Lorenzo Dei Medici fu annoverato tra i principali letterati del suo studio ed incaricato di diventare maestro e precettore del figlio Giovanni, futuro papa Leone X, quindi di insegnare nell’Università di Firenze dove ebbe proficui contatti con il Poliziano e con i più dotti umanisti del tempo.
Insieme a loro, il Cantalicio indagava con la propria ragione, la cultura, la politica, la storia e la natura, aderiva al movimento dell’Umanesimo, desideroso di ritrovare i codici dispersi, di penetrare con entusiasmo i testi latini, di approfondire gli autori classici e di sostenere la varietà dei modelli da imitare, primi fra tutti i commediografi Plauto e Terenzio. Del primo, allo scopo di togliere gli spettatori dalle preoccupazioni del momento e di trasportarli in un mondo fantastico, libero da inibizioni, in un’atmosfera gioiosa e di disimpegno che riflettesse la mentalità borghese in espansione, fece rappresentare i « Menechmi », commedia basata sugli equivoci e sullo scambio di persona; del secondo, con 1’« Andria » e con l’« Eunuco », fece trasparire la finezza di introspezione psicologica, la capacità di commozione e l’intensità drammatica. Dell’opera di Orazio sottolineò il valore delle satire ed i concetti del « carpe diem » e « dell’aurea mediocritas », laddove delle satire di Persio e Giovenale, approfondì l’aguzzo moralismo, il rimpianto del buon tempo antico e la lode del « mos maiorum ». Queste ed altre attività attinenti all’antico mondo romano furono talmente apprezzate nel Valentini da essere valutato « celebre restauratore della vera favella latina ».
Tra i suoi vari e numerosi componimenti poetici, espressi con vena di fine ironia e con saliente umanità, è opportuno segnalare il poema « Venatione », corredato da preziose miniature, in dodici volumi di epigrammi, dedicati a vari principi e pontefici. Tra le liriche profane non si possono trascurare, oltre alle tematiche attinenti alla caccia, alle giostre e al filone realistico e bucolico, quelle di carattere amoroso. Emerge tra esse nel segno della migliore tradizione classica, quella scritta per una giovane di nome Fedra della quale si era innamorato. Quando la donna sposò un uomo d’arme, il poeta avvertì tutta la lacerazione del suo io, dedicandole un epitalamio carico di risentimento, di accuse di tradimento e di afflizione per il dileguarsi del sogno di un amore nostalgicamente accarezzato.
In presenza di così ampia molteplicità di interessi, due peculiari situazioni incisero decisamente nella vicenda esistenziale del Cantalicio: i controversi e problematici rapporti con Rieti e l’elezione a vescovo. In considerazione della sua fama, già consolidata di dotto maestro in varie zone d’Italia, delle sue attività pubbliche, compresa quella di ambasciatore nella corte di Spagna, Rieti, si adoperò a reclamarne la presenza come « Dottissimo maestro e precettore ». La nomina, voluta all’inizio dell’anno scolastico del 1483, dal Consiglio di Credenza ed approvata dai Priori e dal Governatore, suscitò grande consenso ed entusiasmo nei cittadini, negli scolari e nello stesso Maestro che aveva così modo di vivere ed operare nei pressi della sua diletta Cantalice. Tra i suoi scritti, che assumono oggi, più che mai, il carattere di tragica attualità, merita di essere apprezzata « L’esortazione alla pace », proposta per un’opera di pacificazione tra reatini e cantaliciani.
In essa è dato leggere, tra l’altro, « Che giova crescere ancora il furore della guerra, devastare le case, bagnare i campi di sangue e infrangere i patti tradendo gli impegni? Che giova abbrutire i cuori con bestiali duelli e fuggire la pace che è giusta? Suvvia, ambedue deponete questa asprezza d’animo. Tu Rieti che vivesti all’epoca del re Saturno e hai preso il nome da Rea, godi la pace delle tue campagne ubertose e voi, genti della mia Cantalice, deponete tanta furia guerriera e i veleni dell’odio, fate in modo che la vostra rigogliosa gioventù non perisca in armi esecrande ».
L’attività didattica del Cantalicio, che era stata prevista per otto anni, durò però assai poco, sia per le persistenti e gravi ostilità tra reatini e cantaliciani, sia per il verificarsi di un drammatico fatto di sangue che colpì lo stesso Cantalicio. Quando suo cognato, il maestro Lorenzo Chiarenti di S. Gimignano, insieme ad un suo amico, uccise un panettiere reatino di nome Antonio, a nulla valse l’impegno di risarcimento, nella misura di cento ducati, sborsati dal Cantalicio per evitare al congiunto guai estremi. Le autorità reatine, nonostante l’impegno del Maestro, teso ad interporre i suoi buoni uffici per sanare le conseguenze del luttuoso evento e l’inutile tentativo di pacificazione tra Rieti e Cantalice, dovettero consentire al Cantalicio di lasciare la città. Ciò che fece puntualmente non prima di aver rivolto un affettuoso saluto alle autorità religiose ed ai suoi scolari, per prestare la sua opera di insegnante prima a Teano, poi a Perugia ed in seguito alle corti rinascimentali di Roma e di Napoli. Dopo vent’anni di pregevole attività didattica, il papa Giulio II, entusiasta della profonda cultura umanistica e della singolare pietà religiosa del Valentini, il 1° dicembre del 1503, lo nominò vescovo di Penne e di Atri. Accolto con grandi manifestazioni di stima e di affetto, il nuovo presule fece fare alla diocesi un deciso salto di qualità manifestando sentimenti di filiale devozione alla Chiesa abruzzese e zelo apostolico nella formazione delle coscienze e nelle iniziative caritative ed assistenziali. Nel nuovo apostolato e g li confermò le sue eccellenti doti d’ingegno e di vivace operosità, cordialità di rapporti, sollecitudine e benevolenza.
La sua espressione era garbata, la parola sobria ed il periodare elegante e sostenuto da significazioni di ottimismo. Ai giovani, considerati vivaio della diocesi, fu fulgido esempio di dottrina e di accoglienza. Suo merito precipuo risultò naturalmente la cura degli archivi storici e pastorali e dei tesori artistici, il più importante dei quali era rappresentato dalla monumentale cattedrale di S. Maria Assunta di Atri, dalla splendida facciata, ornata dal magnifico portale e dal rosone riccamente decorato. Dati i tempi irti di difficoltà ed in considerazione che il Valentini, preferiva la cattedra al mitra, si risolse a lasciare l’attività apostolica, ereditata tuttavia, nella stesa sede episcopale, proprio l’anno della morte, avvenuta il 1 dicembre 1514, da suo nipote Valentino Valentini. I suoi concittadini, dei quali aveva elogiato, con autentico slancio, la costanza, la rettitudine morale, la fedeltà ed i meriti guerrieri, gli eressero, sinceramente memori e devoti, in S. Maria del Popolo, una statua di fronte a quella di S. Felice che, al pari di lui, ha illustrato la prediletta terra natia.
Testi tratti da Renzo Di Mario, “ Ritratti sabini ”